Di Livio Cinardi
Ci sono persone che attraversano il cielo del mondo come comete. Persone che irradiano tanto diffusamente da spalancare lo sguardo agli astanti attorno. Persone che non si accontentano di essere spettatori. Ogni loro passo è un terremoto, lascia solchi profondi, così che possano essere seguiti da altri. Come le comete, seguono una strada, si muovono apparentemente in una direzione altra, velocissima e impercettibile, che muove il desiderio e sprona alla sequela.
Ebbene. Il pastore Lucio Schirò (1877–1961) non era tra queste. O meglio. Fu per molti una cometa, luminosissima, ma tutt’altro che evanescente.
E se è vero, come lo è infatti, che tutte le esistenze sono uniche e irripetibili, quella di Schirò fu anche altro. La sua, fu vita esposta. A cavallo fra due dei peggiori secoli che l’umanità abbia mai vissuto, decise di non affrancarsi come spettatore, ma giocò da centravanti la partita umanissima del riscatto esistenziale e della giustizia sociale.
Un ruolo per il quale lo Schirò è tutt’altro che preparato. Nessun training, pochi allenamenti. Ciò che muove questo giovane pastore è una spiccata sensibilità per il prossimo (qualora ve lo domandiate: no, non è comune) e l’anelito alla fedeltà evangelica. Appassionato lettore di John Wesley e metodista convinto, egli davvero crede che il mondo sia la sua parrocchia. Mondo sofferente e rabbioso, benedetto da Dio e maledetto dall’Uomo.
Scicli è un ridente centro agricolo, immerso nella fertile campagna ragusana. Pervade la terra una soleggiata penombra. Il sole fa crescere la vita, ma nel cuore abitano tumulti. Sono gli anni dell’avvento socialista, e le contrade contadine pullulano di nuove idee e sentimenti. Sono gli anni dei primi movimenti sindacali, delle prime aggregazioni socio-politiche operaie. Nella soleggiata penombra della Sicilia Sud-Orientale, sino ad allora avvolta nella coltre dell’omertà e della rassegnata sopraffazione, ribolle una nuova coscienza dell’esistenza propria e della collettività.
Schirò cresce in questo fermento, lo scruta nervosamente e di esso si nutre. Lo esamina da vicino, confrontandosi con i sostenitori più accaniti, e da lontano, con il suo riferimento di sempre: la Bibbia. Prima di tutto, Lucio è un cristiano. Evangelico. Sarà la Sola Scriptura a guidare la sue scelte. La realtà sprona ad una decisione, ad un coinvolgimento. Ma è la Sola Scriptura a vagliarne rotta e orizzonte.
Il 5 Novembre 1920, nel suo primo discorso da sindaco, dichiara:
Compagni, la nostra ambizione è soltanto quella di fare del bene. Animati dalla fede immortale, illuminati dall’ideale, se voi sarete solidali con noi, come foste volenterosi a darci il voto, noi faremo gridare con tutto il cuore: Viva il Socialismo! Io guardo questo posto, e mi sento a disagio. Questo posto non è mio, e degli sciclitani. Il mio posto è alla Chiesa. Ben vengano i paesani a gridare viva il Socialismo, io allora al loro grido esultante unirò la mia benedizione.
Fede cristiana e ideale socialista. Mente e braccio dell’esistenza del pastore Schirò. In questo è forse unico e irripetibile? No di certo. Lo rende unico e irripetibile la resilienza alle avversità, la cura instancabile dell’ascolto, l’impegno generativo di alternative coraggiose e originali. Il ventennio fascista è duro per tutti: ma ancor di più per comunisti e socialisti, fieri oppositori al regime. Schirò non è più sindaco già da tempo, ma la sua influenza non si è pubblicamente arrestata. Lancia progetti di alfabetizzazione (una scuola elementare gestita dalla Chiesa metodista locale); partecipa ai congressi provinciali e nazionali socialisti; si candida più volte come parlamentare; pubblica la rivista Il Semplicista. Con un verbo: si espone.
Schirò è da una parte tutelato dal suo ministero pastorale e dall’influenza che egli esercita sulla collettività: il regime non rischia, senza conclamata prova, di provocare animi già esacerbati dalla miseria. Tuttavia, Schirò deve essere avvertito. Prende così avvio un prolungato dilaniamento. Viene isolato, mobbizzato, subisce perfino due attentati, ai quali sopravvive per puro caso. La scuola elementare e la comunità metodista che la gestisce vengono prese di mira: da luoghi di cultura, stimolo e rinnovamento si tramutano in minaccia, diventano insicuri e causa di instabilità e ritorsioni. Crescono i malumori, ma Schirò non cede. Almeno così raccontano i biografi.
Se proprio vogliamo chiamarlo santo, il pastore Schirò è un santo contemporaneo. Possiamo concedergli dubbi e ripensamenti, paura e sconforto. Avrà anche lui sostato al Getsemani. Sappiamo però che non mollò la presa. Egli era un centravanti, in politica e nella vita. Continuò ad essere goccia, a solcare l’argilla insidiosa. Così, fascismo ormai alle porte, riprenderà l’impegno sociale e politico nel partito socialista locale.
Vi starete chiedendo dunque: perché questo Schirò è tanto eccezionale? Non per l’audacia (che pur c’è stata), non per la testimonianza di fede (che pur c’è stata), non per la tenacia (che pur c’è stata), ma per la lungimiranza. Gente bella. Volti e storie da non dimenticare. Così Augusto Cavadi (ed. Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2004) definisce Candida Di Vita, Don Pino Puglisi, Francesco Lo Sardo, Giorgio La Pira, Peppino Impastato, e il nostro Lucio Schirò. Volti, perché ciascuno di loro porta con sé un proprio vissuto, unico, irripetibile, in gran parte a noi misterioso e impenetrabile. Storie, da non dimenticare perché eccezionali, perché spontaneamente hanno preceduto la Storia, non avevano un gregge entro cui proteggersi, ma sono usciti fuori dall’ovile, in avanscoperta. Hanno da sé elaborato modelli di intervento, sono stati precursori.
Per Lucio Schirò, come per Pino Puglisi, Giorgio La Pira e tanti altri e altre con loro, l’esposizione di sé alle avversità matura spontaneamente dalla promessa di Gesù di Nazareth: “Io sono la porta dell’ovile”. Il loro Messia li invitava ad uscire, a scrutare oltre: è l’esempio del Maestro. Essere Lucio Schirò non deve essere stato facile. Come per molti è il vivere quotidiano. Da Schirò possiamo imparare che, anche nelle terre più remote, nelle vite più stagnanti, dove il tempo scorre immobile a se stesso, soggiace sperduta la speranza di un futuro diverso, il riscatto di un’alternativa credibile. La tenacia sta nel ritrovarla, anche controcorrente. A volte, perché non possiamo fare altrimenti. A volte, per fede.