Il discorso della moderatora Alessandra Trotta a Sinodo appena concluso.
Cari fratelli, care sorelle,
non è stato un Sinodo perfetto, abbiamo dovuto accettare molte limitazioni, si sono verificati alcuni inconvenienti; ma dopo un anno di vuoto, grazie all’impegno di collaborazione, davvero generoso, di tanti e tante, abbiamo potuto avere un Sinodo: un camminare insieme attraverso il quale le nostre chiese, in coerenza con la propria ecclesiologia, assumono le decisioni principali di orientamento della propria azione comune, in reciproco servizio ed in solidarietà.
Usando le parole della predicazione del culto di apertura di questo sinodo: per la forza dell’amore di Cristo, il Sinodo, il camminare insieme, “diventa sintonia, sinfonia. Ritrovare l’armonia della coralità, delle diverse voci e strumenti che nei disaccordi ritrovano l’accordo”.
Di questa ricca coralità, di voci diverse e diversi strumenti che – per grazia di Dio – è presente nella vita delle nostre chiese, negli ultimi tre anni ho potuto gustare un assaggio prezioso, con i tre membri della Tavola Valdese che in questo Sinodo hanno terminato il loro servizio e che, anche a nome degli altri compagni di strada, del camminare insieme, voglio ringraziare.
Italo, il pastore Italo Pons: un’incredibile memoria storica, di volti, fatti, battaglie, dibattiti, documenti che nella nostra distrazione rischiano di essere dimenticati, di perdersi; il senso profondo del nostro essere Chiesa; il desiderio, che diventa talvolta ansia, di passare, trasmettere alle nuove generazioni il senso delle esperienze vissute, con l’emozione sincera, però, per la freschezza che le nuove generazioni portano, affiancate con atteggiamento di ascolto e di rispettosa fiducia.
Greetje Van der Veer: una sterminata conoscenza dell’ecumene cristiana, lunghe e variegate esperienze internazionali, la conoscenza di lingue, reti, riflessioni teologiche altre, che allargano la visione, consentono di alzare lo sguardo oltre il nostro recinto.
E poi Laura Turchi: tante competenze sviluppate in un qualificato lavoro nel mondo, messe al servizio della Chiesa; l’ascolto, il dialogo con concistori e consigli di chiesa nell’espletamento delle sue deleghe, sempre diretto a valorizzarne le responsabilità. La capacità di programmare, di organizzare, con l’entusiasmo per i progetti nuovi, che aprono alla possibilità di rilancio e rinnovamento.
Una ricca coralità di voci e di strumenti, che si è mostrata nelle quattro donne, teologhe, che hanno animato un dibattitto alto nel corpo pastorale che è stato chiamato ad indicare al Sinodo un nome per la cattedra di teologia pratica della nostra Facoltà valdese di teologia.
Strumenti musicali che nella loro varietà compongono una sinfonia, come quelli di Gabriele e Monica, un pastore e una diacona consacrati al servizio, riconosciuti nella loro vocazione, benedetti, mandati in missione. E quelli dei fratelli e delle sorelle che ci hanno guidati nelle riflessioni e che ci hanno fatto conoscere nuovi canti con cui cantare le lodi del Signore nei culti mattutini.
La chiesa, con tutte le sue stonature, è un inno. Ma non è il nostro cantare, non è l’inno, ma quel che conta è l’amore.
Giungendo a questo Sinodo con il carico di fatiche, di preoccupazioni, di sofferenze per le perdite di vite umane, per le ansie vissute in questi incredibili tempi di pandemia, ma anche con l’alimento delle nuove esperienze maturate, avevamo bisogno di questo spazio di analisi condivisa, di confronto, di condivisione, in vista delle decisioni da assumere
Ancora la Parola di Dio, ascoltata nel culto di apertura, ci ha richiamati a “ristabilire la priorità, quotidianamente, ogni giorno. L’agàpe, l’amore di Dio e l’amore per il prossimo. In questa priorità ci ritroviamo tutti. E non ci perdiamo per vie non meglio definite”. Il Sinodo le ha definite queste priorità dell’agape.
Sconfinare, superare i confini: quelli interni, territoriali, fra le generazioni, che proprio le esperienze vissute in questo tempo, messe in campo per rendere possibile, per preservare il collegamento, la comunione, la continuità della predicazione nonostante i distanziamenti imposti e che hanno “allargato la tende” spostando i picchetti, hanno interrogato profondamente; impegnandoci in un forte investimento in formazione ed accompagnamento, e nell’acquisizione di strumenti per raggiungere tutti e tutte, comunicare con tutti e tutte.
E poi i confini che dividono l’umanità fra chi ha e chi non ha, fra chi può e chi non può (dignità, diritti, futuro…). Intorno a noi, sul nostro suolo: l’indicazione della cura come pratica radicale, nel richiamo della pastora Di Carlo nella serata pubblica; che nelle decisioni del sinodo è diventata azione per il rispetto della dignità sempre e comunque, per l’inclusione sociale e la riparazione di chi vive o ha vissuto un’esperienza di detenzione, assistenza delle vittime delle guerre, mano tesa a chi vive la precarietà, l’incertezza per la perdita dell’occupazione. Come nelle frontiere, più o meno lontane, in cui giungono le donne, gli uomini, i bambini che fuggono da guerre, da persecuzioni, da limitazioni intollerabili dei propri diritti, dall’ assenza di orizzonti per sé, per i propri figli: le coste del Mediterraneo, la Bosnia, l’Afghanistan, di fronte ai quali non giriamo la testa per non vedere, non possiamo dire “non mi interessa”.
Non belle parole astratte, che rischiano di essere parole al vento, ma parole che possiamo pronunciare in coscienza perché corrispondono a fronti sui quali siamo presenti, provando a dare il nostro contributo.
Sconfinare ed insieme bisogno di ritrovarsi e riconoscersi in ciò che ci contraddistingue da sempre, nelle battaglie di sempre, alle quali ci richiamiamo con forza quando avvertiamo il rischio di distrarci, come ha dimostrato il lungo – inaspettatamente lungo ed intenso – dibattito sulla difesa della laicità della Stato, a partire dal luogo per eccellenza di educazione e costruzione delle competenze essenziali per una cittadinanza giusta, pacifica e solidale all’interno della comunità civile, che è la scuola; un dibattito nel quale hanno fatto sentire la propria voce, più che su altro, deputati di ogni parte d’Italia, tanti insegnanti di ogni ordine e grado, tanti genitori.
Ripetendo una parte del messaggio rivolto durante il culto per il 15 agosto a Sibaud, luogo in cui nel 1561 fu sottoscritto il Patto di Unione ancora oggi fondativo della nostra ecclesiologia, dico: uniti anche se plurali; uniti e solidali; uniti ed accoglienti. Uniti, non contro ma in un’unità messa al servizio dell’apertura, del dialogo.
La nostra fede ci chiama all’impegno, personale e comunitario; all’assunzione di una responsabilità. Un impegno interno ed esterno, senza nessuna possibilità di distinzione, di prima e poi.
Certo, da qualche anno la parola impegno, responsabilità si scontra con la realtà di una decrescita per nulla felice; si confronta con sentimenti di stanchezza, soprattutto in chi è più attivo, ha tirato la carretta e guarda dietro di sé, con la preoccupazione che non vi sia a chi passare il testimone per proseguire la corsa.
Sentimenti di ripiegamento, paura che condividiamo con un pezzo significativo della cristianità europea, occidentale; almeno di quella che prova a vivere una fede incarnata, pienamente nella storia, che non propugna una religiosità puramente consolatoria o il self service religioso centrato su un’idea di benessere personale che lascia autostrade aperte alla penetrazione di ideologie velenose, che ben poco hanno a che fare con il lievito dell’Evangelo.
La Parola di Dio si fa strada a prescindere da noi, fratelli e sorelle, ma il Signore non ha finito con noi. Nel momento della nostra massima debolezza, della secolarizzazione, della decrescita, ci rivolge la più forte vocazione. Come agli esuli in Babilonia che si sentono nelle parole del profeta Geremia richiamati assurdamente a “cercare il bene della città” nel punto più basso della loro storia; nel momento della massima vulnerabilità, quando sono più attanagliati dalla paura di perdere la propria identità: quello è il momento di rischiare aprendosi, invece che chiudersi per difendersi.
Chi può con la sua preoccupazione aggiungere un’ora sola alla durata della sua vita? dirà Gesù ai discepoli preoccupati del domani: non serve la nostra forza, serve la nostra fiducia nell’opera del Signore che ci chiede ora di mettere a disposizione ciò che abbiamo e cioè che siamo, senza complessi e senza esaltazioni.
Non è, dunque, il momento della rassegnazione, non è il momento della stanchezza, cari fratelli e care sorelle. La Parola di Dio si fa strada a prescindere da noi, ma il Signore non ha finito con noi. Camminiamo insieme, nella nostra vita di ogni giorno, nelle reti familiari, amicali, di lavoro, nelle relazioni di cura. Nelle nostre chiese locali, nei circuiti, nei distretti, nelle strade del mondo.
Facciamolo, però, facendo sentire il piacere di questo cammino, non solo lo sforzo. Facendo sentire che per noi è importante, non solo un dovere da assolvere. Il Signore, che sin qui ci ha soccorsi, non mancherà di colmarci ancora e sempre delle sue benedizioni!
Alessandra Trotta, Moderatora della Tavola Valdese